scritto da alessio Soldadino spinelli
Ci si avvicina allo yoga spesso in maniera del tutto casuale, con un’idea che, nel 90% dei casi, non rispecchia quello che poi sarà il nostro percorso all’interno di questa disciplina.
Prendo il mio caso: a 34 anni il mio corpo ha iniziato a dare i primi segnali che lo stile di vita che stavo adottando ormai da anni non era più sostenibile. Orari di sonno e veglia sballati, alimentazione disordinata, fumo e alcol, anni di vita per lo più sedentaria, trascorsi per la maggior parte del tempo sotto la luce dei neon.
Dall’altro lato, sono sempre stato attratto fin da piccolo dalla spiritualità. Ricordo gli anni del catechismo in modo positivo e il mio interesse per la vita di Gesù, figura che mi ha sempre suscitato grande curiosità. Devo ammettere, però, che nel cattolicesimo non ho mai trovato qualcosa che mi stimolasse davvero.
Qualche anno più tardi, sistemando la vecchia cantina di mio nonno, trovai un libro intitolato Lo Yoga in 12 lezioni di Desmond Dunne (1988). Lo lessi con interesse e sentii subito curiosità e attrazione per questa disciplina esotica.
Tornando al mio primo approccio, fui spinto, come dicevo, dall’esigenza di tornare a riconnettermi con il mio corpo. Credo che questo sia il motivo per cui l’Ashtanga Yoga funziona così bene per noi occidentali: la vita moderna ci porta così lontano da noi stessi da farci perdere il contatto con il nostro Sé.
E da dove possiamo ricominciare, se non dal corpo? Come possiamo anche solo pensare di sederci a meditare se il corpo non è in salute?
Soprattutto all’inizio è davvero sorprendente:
bastano pochi movimenti collegati al respiro per riportarci a un sentire più sottile, a una sensibilità rinnovata e acuita, e a una gioia interiore che sembrava sepolta da tempo.
All’inizio del percorso si è pieni di entusiasmo, e i progressi sono molto percepibili, soprattutto sul piano fisico. Ma ecco che, dopo un primo momento di “slancio”, in cui la pratica ci porta i suoi frutti e le prime comprensioni, iniziamo ad avvertire qualche resistenza lungo il cammino: dolori fisici, i primi cambiamenti del nostro stile di vita che possono sembrare strani a chi ci è sempre stato accanto, un diverso atteggiamento verso situazioni che abbiamo sempre tollerato e che ora non accettiamo più.
È proprio qui che dobbiamo capire che siamo sulla strada giusta. È proprio in questo momento che lo yoga inizia a fare il suo vero lavoro. Anche il nostro maestro S. K. Pattabhi Jois era solito dire: “Practice and all is coming” — “Pratica, e tutto accadrà”.
Ma cosa voleva dire davvero con questa frase? Forse che siamo troppo abituati ad analizzare tutto ciò che ci succede nella vita, ad etichettarlo come bello o brutto, giusto o sbagliato, buono o cattivo, senza coglierne davvero il significato profondo, dimenticandoci della parte più importante: il viaggio.
Dopo i primi mesi di pratica avevo entrambe le ginocchia letteralmente in fiamme. Lasciai passare qualche settimana, dopodiché chiesi a Elena, la mia maestra, se fosse tutto normale. Ricordo che mi guardò e mi disse:
«È un dolore così forte da non permetterti di muoverti?»
Risposi: «No, sento solo le ginocchia deboli e che bruciano».
Mi rispose: «Allora puoi praticare. Stai sempre nell’ascolto del corpo, ma non fermarti e rimani nella fiducia. Tutto passa».
E fu proprio così. Dopo qualche settimana smisi di avere fastidio e da allora non ho mai più avuto un solo problema alle ginocchia.
Negli Yoga Sūtra, Patañjali dice:
तपः स्वाध्यायेश्वरप्रणिधानानि क्रियायोगः ॥१॥
tapaḥ svādhyāyaiśvara-praṇidhānāni kriyā-yogaḥ
Tapas, Svādhyāya e Īśvara Praṇidhāna costituiscono il Kriyā Yoga.
Tapas indica proprio il “bruciare”, il creare calore. Significa anche portare alla luce ciò che non va nel profondo. Tapas ripulisce, ma per purificare qualcosa dobbiamo prima far emergere ciò che non funziona e, attraverso un processo più o meno lungo e intenso, guarirlo.
Svādhyāya indica lo studio, che può riferirsi allo studio delle scritture ma anche allo studio di sé. Significa cercare di percepirsi da punti di vista diversi, e la pratica diventa un ottimo strumento per compiere questo lavoro.
Poi abbiamo Īśvara Praṇidhāna, l’affidarsi. Ma a chi o a che cosa? In genere significa affidarsi a Dio, ma potremmo anche dire: affidarsi a qualcosa di più grande di noi, abbandonarsi all’insegnamento e alla pratica.
Il Kriyā Yoga, cioè lo yoga pratico composto da diverse tecniche, non può prescindere da questi concetti. Non può esserci trasformazione senza lo sforzo e la disciplina necessari per purificare corpo, mente e sensi. Tutto questo lavoro ci porta forza e chiarezza nella vita.
Nutrire ciò che è positivo porta inevitabilmente ad abbandonare ciò che non funziona più, come l’albero che lascia cadere i rami secchi che non servono.
Un’altra cosa che spesso accade è il sorgere di una domanda: “Ma chi me lo fa fare di sobbarcarmi tutto questo sforzo?”
Ma siamo sicuri che siamo proprio noi a parlare, o è la nostra mente?
La mente è un organo, come lo sono il cuore, il fegato o i polmoni. Tramite essa, grazie ai sensi, percepiamo e decodifichiamo il mondo esterno. Spesso però ci identifichiamo così profondamente con i nostri pensieri da dimenticare che la mente è al nostro servizio — e non il contrario. Ci ritroviamo così a essere governati da lei, inconsapevolmente.
Quello che facciamo nello yoga è proprio andare a riprendere il controllo della mente, riportandola al nostro servizio. Tutto questo richiede grande sforzo e disciplina, e la pratica ci viene in aiuto attraverso la ripetizione e la costanza, mantenendo impegnati i sensi.
Ritrovando la connessione con il nostro vero Sé, scopriamo di non essere né la mente né il corpo. In questo modo torniamo a essere i registi della nostra vita.
Alessio